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A cura di Giacomo Conserva




Adorno, Fortini/Gryphius, Alciati*
di Giacomo Conserva

28 dicembre 2014





Gli scritti sociologici di Adorno

A Th.W. Adorno è stato molte volte rimproverato lo stile (oltre il contenuto): per obscurum ad obscurius — non solo analisi complicate, concetti non autoevidenti, un idiosincrasico modo di argomentare — ma anche un lessico spesso desueto, frasi aggrovigliate, giochi di parole. Brecht parlava di mandarini cinesi, di albergo sull’orlo dell’abisso: il tutto infatti si univa — pur nel deciso antinazismo — ad una presa di distanza da tutti gli schieramenti in lotta nel periodo delle guerre civili e delle guerre mondiali. Naturalmente, p.e. Fortini riconosceva non solo una prefigurazione da parte della Teoria Critica dei problemi della società tardocapitalistica, ma anche una omologia possibile fra lo stile ed il contenuto: l’aspirazione ad una liberazione da realizzarsi non solo a livello utopico (o tanto meno da delegare a istanze autoritarie e differire sine die) ma anche qui ed ora — nel discorso, nella scrittura (nel comportamento); è del resto nota per esempio l’affinità fra una figura come Walter Benjamin (strettamente associato ad Adorno) e la mistica.

Bene: posto tutto questo, fare i conti con gli scritti sociologici empirici di Adorno è un’esperienza del tutto imprevista e imprevedibile: studi condotti in gruppo, sulla base di una ricca messe di interviste e dati, oltre che di una profonda successiva elaborazione; e — fra le altre cose — di una chiarezza cristallina. Le tecniche propagandistiche di Martin Luther (un predicatore americano di estrema destra degli anni ’30), la mentalità autoritaria (un colossale progetto collettivo degli anni ’40, cui collaborò, redigendo infine materialmente parecchi dei capitoli), colpa e difesa (sulla elaborazione — o rifiuto di elaborazione — dell’esperienza del nazismo nella Germania del primo dopoguerra), le stelle sulla terra (analisi della colonna astrologica di un quotidiano USA).

Forse il mondo è più complicato di quanto ce lo raffiguriamo. C’è stato chi (Habermas) ha pensato di liquidare Adorno e Horkheimer come discepoli di Nietzsche (la fonte di tutti i mali), portatori di un irrazionalismo di fondo immaturo e pericoloso. Più banalmente, li si può semplicemente considerare passati, superati, andati. Quindici anni dopo il crollo dell’URSS, e dopo pure il dispiegarsi della barbarie del Nuovo Ordine Mondiale, si può forse dire qualcosa di positivo sulla saggezza delle loro impostazioni politiche. E gli scritti sociologici insegnano che l’aspirazione a un Altro (cfr. Dialettica negativa) non necessariamente vuole dire non sapere o non volere fare i conti con la realtà.

Th.W. Adorno, Soziologische Schriften, II (1,2), Suhrkamp Verlag, 2003.
Th.W. Adorno, Dialettica negativa, trad. it. C.A. Donolo, Einaudi, Torino 2004 (1966).
J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, trad. it. di Emilio Agazzi e Elena Agazzi, Laterza, Roma-Bari 2003 (1985).
F. Fortini, “Il passaggio della gioia”, in Saggi ed epigrammi, Mondadori, 2003, pp. 274-280 [è del ’67; prima sui Quaderni Piacentini, poi in Verifica dei poteri].


Fortini, Gryphius

Vai via, getrübtes jahr: un verso di Fortini: da “anno ’64”, in L’Ospite ingrato. Testi e note per versi ironici (1966) e poi, credo, nell’Oscar di Poesie scelte.

L’anno sessantaquattro

1.
Correvo in auto la luminosissima Brianza
  e foglie rotolavano pulite nella danza
d’aceri e tigli brune e gialle precipitose
  tra cementi d’officine piccole e stecchi di rose
robinie color volpe campings semidivelti
  i tavoli dei bar ristoranti capovolti
le piume d’un coniglio nella palta
  di sangue impresso e fisso sull’asfalto
le operaiette dei turni affollate allo spaccio
  e lassù nel turchino prealpino di ghiaccio
la notizia che l’anno finiva.

2.
Va’ via, getrübtes Jahr, va’ via mit deinen Schmerzen.
  Stanotte affili Bórea le trombe delle feste.
Battano gli impiantiti di dancings e di casolari
  le impiegate tenui e le dure comari.
E anche la ubriaca magra dei muratori
  che tra spini di siepe scuote a sfida i colori
del viso decorato di nero bianco e rosso
  e la gonna che striano erba e creta di fosso
anche lei calchi e stritoli l’annata sotto il tacco
  quando dai poli sibili di radio la distacchino
e dormire nel grigio che viene.

Lessi questo testo nel ’74 — una figlia appena nata, caos nella mia mente e nella mia vita. Quanto erano martellanti le parole, eletto il lessico, improbabili e indispensabili gli accostamenti; quanto plumbeo, dopo la foga dei periodi, il tocco di campana dei versi conclusivi delle due strofe. In mezzo, inatteso e immotivato, lo stacco dell’inizio della seconda strofa: alcune misteriose parole tedesche — un richiamo a una dizione ‘sublime’, dichiaratamente barocca (“affili Borea la tromba delle feste”); mille migliaia di anni luce lontano dallo squallore accatastato del paesaggio e delle scene evocate, e dalla brutalità della disperata conclusione (mentre scrivo queste righe, mi viene in mente. ‘no future no future no future’).

Le parole tedesche venivano da Gryphius, scoprii da qualche parte: il poeta tedesco del ’600, delle devastazioni della Guerra dei 30 Anni — l’eroe di Walter Benjamin nel suo saggio sull’origine del dramma tedesco (saggio posto sotto la costellazione della malinconia e della rovina — e, quindi, di una paradossale messianica attesa).

Qualche mese fa, in un sito internet (la rivoluzione tecnico-scientifica!) dedicato a ad Andreas Greif, autonominatosi Gryphius, ho trovato la poesia. Una emozione molto forte, naturalmente. E una scoperta, pure. Fortini, dalla sua posizione di rivoluzionario calvinista, di moralista aspro, dice: Vai via, anno affannato; vai via con i tuoi dolori. E la poesia si conclude con il nulla che avvolge e inghiotte l’individuo (come il neocapitalismo stava avvolgendo il mondo di Fortini allora).

Gryphius dice qualcosa d’altro:


Fine dell’anno 1648

Vattene via, anno affannato! Vattene via con i miei dolori!
Vattene via con la mia angoscia ed ammassata pena!
Porta via tutti questi cadaveri! Tempo costretto, passa
e porta via con te il peso di questo cuore.

Signore, cui la nostra esistenza è come un chiacchierio e uno scherzo,
non cade via il mio tempo come fusa neve?
Lascia allora, mentre il mio sole è ancora al mezzogiorno,
che io non scompaia come una candela che si è esaurita.

Signore, ci sono stati abbastanza colpa,
angoscia e sofferenza a sufficienza sono state sopportate,
concedi adesso un poco di tregua, che io possa fare i conti con me stesso.

Concedi che questo pugno d’anni
lieto li viva prima della mia tomba.
Non rifiutarmi il tuo dono d’amore.

La differenza da Fortini è abissale: (intanto c’è da dire che il riferimento ai cadaveri è del tutto puntuale: altrove egli parla di trincee, città in rovina, fortini, macchine d’assedio, campagne devastate, corpi fatti a pezzi) — de me fabula narratur [si parla di me] — sono corresponsabile, non solo giudice o vittima. E la speranza riguarda me, non solo gli altri (il proletariato, i dannati della terra, chi vogliamo).
Forse c’è una lezione in tutto questo.

F. Fortini, Saggi ed epigrammi, a c. di Luca Lenzini, Mondadori 2003, p. 971
http://www.lehrer.uni-karlsruhe.de/~za874/homepage/gryphius.htm
A. Gryphius, Dramen, Deutscher Klassiker Verlag, 1991 (con vastissimo commento).
The Sex Pistols, “God save the Queen”, Virgin, 1977.


Andrea Alciati

Il Libro degli emblemi di Andrea Alciati (1531, poi innumerevoli altre edizioni e traduzioni) fu un libro fondamentale; lo stile, i temi, i motivi furono alla base della fioritura enorme di opere di emblemi e imprese che caratterizzarono la civiltà europea nella seconda metà del ’500 e nel ’600. Un titolo — un’immagine — un commento (o narrazione): il tutto al servizio di una visione allegorica del mondo che Benjamin è stato fra i primi ad indagare; un mondo ossessionato dalla caducità e dalla vanità di ogni gloria e gioia terrena. Ma in Alciati (che fu un eminente giurista e docente, e operò fra il ducato di Milano, la Francia, la Germania, e di nuovo l’Italia, a quel punto saldamente dominata dagli Asburgo) il quadro è molto diverso: pace, equilibrio, misura; i mali del mondo esistono, vengono visti e analizzati — ma ragione e speranza permettono di guardarli per quello che sono, nel loro venire avanti e nel loro scomparire. Le immagini (aggiunte a posteriori) sono paesaggi rinascimentali, scene mitologiche, exempla — con un verismo tranquillo (e duro, a volte) che non sarebbe durato molto. La lingua è il latino degli scritti dotti del Rinascimento — piena però di un eloquio basso e tecnicismi, con un fermo aggancio al mondo effettuale.

Dagli epigrammi greci (che Alciati collaborò a tradurre in una edizione inizio ’500 della Antologia Palatina) viene desunta la capacità di riassumere in pochi tratti i dettagli di una situazione interpersonale e di una storia, e di collocarla in un mondo ben preciso (Quest’albero, questa curva del sentiero, questa pietra, questa montagna). L’enorme erudizione classica che sta a monte è non un peso ma, come negli Adagia di Erasmo (suo contemporaneo), uno strumento lieve e preciso per scandagliare gli eventi.

Tutto ciò appunto non era destinato a durare (il traduttore di Erasmo in francese venne condannato al rogo a metà del ’500). Ben altro tono venne assunto dalle culture in lotta al tempo delle guerre di religione e della guerra dei 30 anni (per non parlare della conquista delle Americhe). “Con i suoi lutti, con i suoi danni/ la guerra è tanto tempo che c’è”.
Pure, un po’ di quella serenità dura.

A. Alciati, “A book of emblems. – The Emblematum Liber” in Latin and English, a c. di John F. Moffitt, Mc Farland, 2004.
W. Benjamin, Il drama barocco tedesco, Einaudi. 1980 (1928).
A. Schöne, Emblematik und Drama im Zeitalter des Barock, Beck, 1993 (1a ed. 1964).
Erasmo, Adagia, Salerno, 2002 (scelta parziale, con il testo a fronte).
http://www.mun.ca/alciato/index.html
http://www.ces.arts.gla.ac.uk/html/AHRBProject.htm


Emblema CLXXVIII (177 nell’edizione di Moffitt)

Ex bello pax





Dopo la guerra, la pace

Ecco un elmo, portato un tempo da un intrepido soldato, e spesso cosparso del sangue dei nemici. Adesso che c’è la pace, ha permesso alle api di usarlo come alveare, e i favi producono dolce miele. Che le armi rimangano da parte; che sia lecito iniziare la guerra solo quando non si possono altrimenti godere le arti della pace.


* Il presente testo è già apparso in Poliscritture, n.3, 2007


Francoforte, Adorno Platz

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